
E’ probabile che qualcuno di voi, durante un’escursione in montagna, si sia trovato di fronte a singolari strutture costruite in cemento armato, gran parte inglobate e nascoste dalla vegetazione, altre ben visibili. La particolarità è rappresentata dalla muratura definita a “nido d’ape” a causa dei fori presenti nelle pareti. La presenza di feritoie permette di intuire che si tratta di complessi militari non più utilizzati. Ci troviamo in Carnia, regione del Friuli Venezia Giulia. Pochi conoscono la loro storia, in quanto si tratta di forti, sbarramenti, caserme e altri complessi difensivi costruiti sotto segreto militare.
Per definire un quadro storico ben definito partiamo dalla fine degli anni ‘30.
Il 22 maggio 1939, si riunirono a Berlino (in presenta di Hitler e lo Stato Maggiore tedesco), il ministro degli esteri Galeazzo Ciano e Joachin Von Rebbentrop per siglare quel documento che segnò l’alleanza tra il Regno d’Italia e la Germania nazista: il “patto d’acciaio”. L’alleanza con la Germania avrebbe dovuto produrre una reciproca fiducia e collaborazione tra le due potenze, ma fu davvero così? Alcune recenti ricerche hanno messo in rilievo alcuni particolari sconosciuti fino a qualche anno fa. Negli archivi dello Stato Maggiore dell’esercito italiano, sono emersi alcuni documenti implementati da numerose circolari riguardanti la progettazione di in sistema difensivo a ridosso della catena Alpina. Una fitta rete di bunker che da Ventimiglia, in Liguria arrivava fino a Fiume, allora città italiana, ora territorio croato. La linea difensiva è stata definita come “Il vallo alpino del littorio” ed aveva lo scopo di proteggere il Regno d’Italia da eventuali invasioni da parte dei paesi di confine: Svizzera, Francia, Austria e Jugoslavia. Sebbene l’Italia avesse firmato il patto d’acciaio, si manifestava una certa diffidenza anche nei confronti della Germania, lo stesso Mussolini non si fidava dell’alleato tedesco. Il vallo alpino venne costruito in segretezza nel 1931, ma la sua costruzione venne ufficializzata nel 1940, quando la Germania occupò l’Austria. La linea difensiva sorta sul confine orientale ai confini con la stessa Austria venne definito come “la linea del non mi fido” a sottolineare la diffidenza di Mussolini nei confronti di Hitler.

Questo genere di opere era tipico degli anni ‘30, in Francia la linea difensiva Maginot proteggeva i confini del Belgio, Lussemburgo, Germania, Svizzera e Italia; in Germania la Sigfrido era posizionata nei confini di Olanda, Belgio, Francia e Lussemburgo; la linea Rupnik proteggeva i confini Jugoslavi dall’Italia e dall’Austria; in Russia la linea Stalin si estendeva dalla Polonia fino al confine con la Finlandia. In tutta la catena alpina sono visibili costruzioni in cemento che sbucano dalle rocce , immerse dalla vegetazione con particolari facciate che possiamo definire : “a nido d’ape” dotate di fori necessari per far crescere l’erba utile per la mimetizzazione della struttura, sia da terra che dall’alto. Vallo deriva dal termine latino “Valcum” utilizzato dai romani per indicare una linea difensiva. Il vallo del littorio non venne mai utilizzato, né durante il periodo di alleanza con la Germania e nemmeno durante l’armistizio, periodo in cui le le truppe italiane erano in stallo, in attesa di ordini da parte dello Stato Maggiore. L’unico utilizzo dello sbarramento di difesa venne utilizzato da parte delle truppe tedesche nel corso della ritirata durante l’avanzata delle truppe americane dopo lo sbarco in Normandia.
Alla fine della seconda guerra mondiale, tutte le opere furono dismesse fino al 1949 data in cui venne siglato il “patto atlantico”. Con l’inizio della “guerra fredda”, il timore di un’invasione da parte dei paesi comunisti dell’est, determinò la riattivazione degli sbarramenti nelle zone di confine del Friuli Venezia Giulia, una linea di fortificazioni di circa mille opere sul fronte orientale. Il trattato di Schengen, siglato il 14 giugno 1985 tra Benelux, Germania Ovest e Francia costituì il primo passo per la definiva l’eliminazione dei controlli alle frontiere. L’Italia aderì al trattato nel 1997, nel frattempo aveva già posto la fine della leva obbligatoria e ceduto le opere dello sbarramento ai rispettivi comuni. Molte di queste opere rovinate dalle scosse di terremoto nel 1976 subirono un profondo degrado e furono inghiottite dalla vegetazione. Altre, grazie alle gestioni comunali, sono state riqualificate come attrazione turistica.
Attualmente sono state messe a disposizione del pubblico: lo sbarramento di Invillino, di Monte Croce Carnico nei pressi di Paluzza, la fortificazione di San Michele a Savogna d’Isonzo (GO) e di Ugovizza- Forcella- Malborghetto (GO).
Lo sbarramento di Monte Croce Carnico entrò in funzione negli anni ‘50; dotato di postazioni anticarro e casermetta di ricovero per i militari destinati a presidiare la zona. Era situato in una posizione strategica per ostacolare una possibile invasione dall’Austria con controllo delle valli che si diramano dalla città di Villach.
La fortificazione di San Michele era collocata in una zona altamente strategica con controllo sulla valle del Vipacco e la vallata che porta al golfo di Trieste, si trattava del punto più debole nei pressi del confine. La struttura di venne messa in funzione negli anni’60 ed era costituita da un posto di comando, una caserma per le truppe, un osservatorio, alcune torrette per postazioni d’artiglieria, per mitragliatrici e mortai.
Sempre in provincia di Gorizia nelle località Ugovizza-Forcella-Nebra sorgevano quattro opere distinte: Malborghetto, quota 845, Nebria e Valbruna, dopo il patto di Varsavia lo sbarramento è stato diviso in due fronti: Malborghetto e Ugovizza-Forcella-Nebria. La costruzione aveva lo scopo di rafforzare opere controcarro e di controllare della statale SS13 Pontebbana considerata una zona predisposta ad invasione di massa. Il pericolo consisteva nella possibile penetrazione di truppe di fanteria dalle zone alpine della Val Saisera, della Val Dogna nel tentativo di aggirare la postazione della Val Fella.

La costruzione delle opere dislocate sul fronte orientale carnico è stata disposta in tre gradi basati secondo il livello di pericolo.
Tra le opere di primo grado le fortificazioni di Passo Monte Croce Carnico, Tarvisio, Strette di Fleons; tra quelle di secondo grado possiamo classificare le prese di Comeglians; tra quelle di terzo grado lo sbarramento di Invillino. Si tratta di opere collocate nei pressi di strade, ferrovie o altre vie di comunicazione di primaria importanza. Erano presidiate da truppe di fanteria o artiglieria anticarro, con ostacoli inseriti nel terreno per evitare l’avanzata di carri armati.
Sulla parete nord del monte Navado sorge lo sbarramento di Invillino, frazione di Villa Santina e nelle vicinanze gli sbarramenti di Preone, Socchieve, Val Degano, Comeglians, Passo Pura. La funzione dello sbarramento di Invillino era quella di bloccare il nemico diretto Verso Val Degano, Tarvisio, le zone del Cadore e alla vicina strada diretta a Verzegnis.
VISITA AL BUNKER DI INVILLINO

Il comune di Invillino, in occasione del 94 raduno degli alpini nella città di Udine, ha programmato alcune visite guidate nei giorni 11/12/13 maggio 2023. Una giornata piovosa, l’appuntamento era programmato alle ore 14,00 del giorno 11 maggio presso la chiesetta della Madonna del Ponte. La chiesa sorge in prossimità dell’incontro dei fiumi Degano e Tagliamento sul luogo dove fino al 1823 sorgeva una cappella sempre dedicata alla Madonna. La leggenda narra che la nuova chiesa sia stata costruita per volere dei zatterai (ciatars), persone che svolgevano un lavoro rischioso accompagnando il legname su zattere fino al mare. Dopo l’erezione della chiesetta non ebbero notizie dI incidenti. Nel 1944 durante l’occupazione del 10 Agosto alcuni eventi salvarono la città dalla distruzione. Le comunità fecero voto di recarsi al santuario per i trent’anni successivi.
Omar, la nostra guida, invitò il gruppo ad attraversare il ponte, e, percorsi circa duecento o trecento metri, ci addentrammo nel boschetto seguendo il sentiero alla nostra destra. Dopo alcuni passi ci trovammo di fronte all’ opera di sbarramento di Invillino. All’ingresso della struttura a “nido d’ape” erano visibili due feritoie per mitragliatrici. L’opera fu realizzata grazie al lavoro di 45000 civili. Per garantire la segretezza, Mussolini preferiva dare appalto a ditte esterne. La ditta che prese in appalto la costruzione di Invillino aveva sede a Torino; si occupò degli scavi e del getto dei cementi, il lavoro di impiantistica venne assegnato ai genieri dell’esercito. Le fortificazioni ricordano la struttura di un sottomarino, e, secondo alcuni aspetti, la vita sotto terra era riconducibile a quella dei marinai dei sommergibili, motivo per cui, vennero scelti degli psicologi della marina militare come in qualità di formatori di truppe.
GALLERIA FOTOGRAFICA DEL PERCORSO NEL BUNKER DI INVILLINO

All’interno un profondo corridoio conduceva ai vari reparti della struttura, attraverso vie laterali e scale fino al raggiungimento di una profondità di circa 30 metri. I lati del corridoio erano accompagnati da due canalette laterali realizzate con pendenza per lo scorrimento dell’acqua, anche lo stesso pavimento era leggermente inclinato in modo da far scivolare l’acqua verso l’esterno.

Una scaletta porta alla “caponiera” rialzata con postazione di 2 mitragliatrici “breda”.

Le latrine, per motivi igienici, sorgevano in prossimità dell’ingresso.

Nel corridoio sopra un piano rialzato era appoggiata una vasca in eternit contenente l’acqua non potabile, mentre quella resa potabile veniva conservata in damigiane di vetro da 5 litri.

Stanza destinata al gruppo elettrogeno ed al serbatoio di carburante per l’ alimentazione. L’apparato aveva un peso di circa 100 chilogrammi, non consentiva una intensa luminosità, infatti con una potenza di circa 1,70 kw forniva elettricità a lampadine di 20 watt, in tutto il bunker. Quando, in caso di vicinanza del nemico , il gruppo elettrogeno doveva essere spento entravano in funzione alcune batterie di accumulo. Lo scopo era quello di rendere silenzioso l’ambiente .

La struttura presenta delle pareti scavate nella roccia, prima ricoperte di calcestruzzo poi isolate tramite un’intercapedine in grado di impedire la filtrazione dell’acqua e di attutire i rumori verso la superficie.

Nelle pareti del corridoio appaiono dei vani che contenevano lampade a petrolio da utilizzare come pile di emergenza in nel caso di malfunzionamento dell’impianto di illuminazione. Il foro presente nel vano consentiva la fuoriuscita dei fumi.

La stanza destinata ai combattimenti era costituita da pareti stagne, un vano laterale utilizzato per i ricambi delle canne incandescenti delle mitragliatrici Breda e due vani in basso, probabilmente destinate a contenere casse di munizioni.

L’unico originale di una porta stagna presente nella struttura, l’apertura non doveva essere minore di un metro e mezzo per consentire il passaggio delle barelle verso l’infermeria.

La postazione di mitragliatrice con piastra in ferro era situata in una posizione secondaria. La piastra capace di proteggere da colpi con piccoli calibri, non avrebbe potuto resistere grossi calibri.

Le torrette destinate all’uso mitragliatrici permettevano una miglior respirazione grazie ad un tubo di ventilazione. I due scansi che appaiono ai lati della mitragliatrice consentivano una rotazione in modo di favorire una linea di fuoco più ampia. Inizialmente vennero assegnate del le mitragliatrici FIAT, in uso durante la prima guerra mondiale poi sostituite dalle BREDA, più moderne ed efficaci.

Una particolarità di queste costruzioni erano le comunicazioni fotofoniche. Un microfono trasformava la vibrazione della voce umana in impulsi elettrici che, assorbiti da un circuito , alimentavano la fotoconduttrice, un apparecchio che inviava radiazioni infrarosse. Le radiazioni erano in grado di attraversare lo spazio tra 2 fortificazioni e, una volta ricevute venivano lavorate con un processo inverso. Venivano trasformate in vibrazioni meccaniche che producevano onde sonore in grado di riprodurre il testo del messaggio.

La sala centrale era il luogo più sicuro della struttura, un immenso corridoio comprendeva le camerate con letti a castello. Si trattava della stanza destinata alla vita sociale, dotata di bagni, dell’infermeria, del calzolaio e della cucina. La camerata era definita a “letti caldi” in quanto il continuo cambio di guardia prevedeva che durante l’intera giornata la branda fosse sempre occupata.
















Una parte di storia del ventesimo secolo tenuta nascosta, prima dal regime fascista , poi da una fazione segreta durante il periodo della guerra fredda. L’esistenza di questa organizzazione creata nel 1956, venne resa pubblica solo nel 1990 dal presidente del consiglio Giulio Andreotti. “Gladio” era un’organizzazione paramilitare che aveva lo scopo di addestrare reclute e controllare i confini del nord-est da una possibile invasione da parte dell’ U.R.S.S.. Disponeva di nuclei ed unità in tutta Italia con maggior accentramento nel Friuli Venezia Giulia. I nuclei disponevano di alcuni rifugi denominati “nasco” dove nascondevano armi, documenti, carte geografiche e materiale di propaganda. Gladio venne scoperta durante le indagini sul terrorismo da parte del magistrato Felice Casson. Casse di armi e munizioni sono state ritrovate nelle cappelle e nelle cripte di molte chiese del Friuli Venezia Giulia, ricordiamo, in particolare , la chiesa di Mariano del Friuli il 26 novembre 1990. Un altro pezzo di storia, forse collegato, al processo riattivazione degli sbarramenti del vallo dl littorio, tenuto segreto per molti anni, scoperto e cancellato con lo scandalo “mani pulite”, forse per indirizzare l’opinione pubblica verso altri avvenimenti in grado di oscurare quelli reali.

