LE SACRE RELIQUIE DI COSTANTINOPOLI

Caorle, ora città turistica e balneare, ha mantenuto un piccolo centro storico che si discosta dalle strutture alberghiere e commerciali costiere; ricorda una piccola Venezia strutturata da minuscole casette dipinte con colori sgargianti, strette viuzze simili alle calle veneziane e costeggiata da un’ immensa spiaggia.

In questo luogo, tra le calle e i negozi artigianali sorge l’antica e suggestiva cattedrale, vicino alla porta di ingresso un immenso campanile cilindrico pendente e sul fianco l’entrata al museo del duomo ricco di reperti religiosi, un tesoro in grado di legare il presente ad un misterioso passato, così come la cattedrale dedicata a Santo Stefano.


Dagli atti degli apostoli cap. 7.
Testardi e incirconcisi nel cuore e nelle orecchie, voi opponete sempre resistenza allo Spirito Santo. Come i vostri padri, così siete anche voi. Quale dei profeti i vostri padri non hanno perseguitato? Essi uccisero quelli che preannunciavano la venuta del Giusto, del quale voi ora siete diventati traditori e uccisori, voi che avete ricevuto la Legge mediante ordini dati dagli angeli e non l’avete osservata”.
All’udire queste cose, erano furibondi in cuor loro e digrignavano i denti contro Stefano.
Ma egli, pieno di Spirito Santo, fissando il cielo, vide la gloria di Dio e Gesù che stava alla destra di Dio e disse: “Ecco, contemplo i cieli aperti e il Figlio dell’uomo che sta alla destra di Dio”. Allora, gridando a gran voce, si turarono gli orecchi e si scagliarono tutti insieme contro di lui, lo trascinarono fuori della città e si misero a lapidarlo. E i testimoni deposero i loro mantelli ai piedi di un giovane, chiamato Saulo. E lapidavano Stefano, che pregava e diceva: “Signore Gesù, accogli il mio spirito”. Poi piegò le ginocchia e gridò a gran voce: “Signore, non imputare loro questo peccato”. Detto questo, morì.
Dopo la crocifissione e la resurrezione di Gesù, accrebbe progressivamente il numero di nuovi seguaci che desideravano la conversione al cristianesimo; questa crescita di fedeli rese necessaria la nomina alcune figure di riferimento che fossero in grado di governare ed amministrare le numerose comunità cristiane che si stavano formando, per questo gli apostoli affidarono l’ incarico ai primi sette diaconi della storia del cristiana: Stefano, Filippo, Procoro, Nicantore, Tirone, Parmenas e Nicola di Antiochia.
Non è chiara l’origine di Stefano, forse era greco oppure un ebreo che aveva avuto contatti con la cultura ellenica. Ricevette la nomina di “diacono” dagli apostoli. La sue opere e la fedeltà allo spirito santo non passarono inosservate agli ebrei ellenisti che, osservanti del vecchio testamento, lo accusarono di blasfemia nei confronti degli antichi padri Abramo e Mosè. Il Sinedrio, non avendo alcun potere di condannarlo, lo abbandonò alla folla che, occultandosi dietro dall’antica legge di Mosè, lo lapidò a morte. Tra la folla era presente Saulo di Tarso, accanito persecutore dei cristiani, quel Saulo che, in un prossimo futuro, verrà colpito da un raggio di luce sulla via di Damasco; una luce divina, in grado di trasformare la sua persona e la sua anima tanto da diventare uno dei padri della cristianità: “San Paolo”.
L’ opera di Stefano non si dissolse dopo la sua morte, la forza di perdonare i suoi carnefici rese il suo sacrifico paragonabile a quello di Gesù nell’istante in cui si rivolse al Padre supplicando: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno!”. Come Gesù chiese a Dio di perdonare la folla che lo stava schernendo mentre soffriva, anche Stefano si appellò al Padre affinché non imputasse il peccato ai suoi aggressori.
Dopo aver subito la lapidazione, il cadavere venne gettato ed abbandonato come cibo per le belve selvatiche ma, come per miracolo, nessun animale osò mordere il suo corpo che, dopo qualche giorno, venne raccolto per essere sepolto in una località poco distante da Gerusalemme chiamata “Caphargamala”. Del corpo del santo non si seppe più nulla, fino a quando nell’anno 415 “Prete Luciano” scrisse una lettera il cui testo rivelava il luogo dove erano sepolte le sue spoglie. Nella lettera, Prete Luciano raccontò di aver sognato un un vegliardo dalla barba bianca, che indossava vesti liturgiche; nel sogno il vecchio gli aveva rivelato il luogo della sepoltura. Riportiamo quanto descritto nella leggenda aurea di Jacopo da Voragine riferita alla Lettera, cap. XXVII, di Luciano datata 3 dicembre 415:

– “Io mi ero addormentato, al calar della notte, nel mio giaciglio, nel santo luogo del battistero, dove avevo l’abitudine di andare a dormire per custodire gli oggetti utili al ministero. Alla terza ora della notte, caddi in una sorta di estasi, un mezzo sonno, e vidi un vecchio di grandi proporzioni fisiche, prete di grande dignità, coi capelli bianchi, la barba lunga, rivestito di una grande stola bianca ornata da bottoni d’oro con una croce in mezzo. In mano teneva un bastone d’oro. Mi si avvicinò e, ponendosi alla mia destra, mi toccò col suo bastone d’oro: poi, dopo avermi chiamato per nome tre volte: “Luciano, Luciano, Luciano”, mi disse in greco: “Andate nella città di Aelia, che è Gerusalemme, e dite al santo Vescovo Giovanni queste parole: “Per quanto tempo dovremo rimanere rinchiusi e tarderete ad aprirci le porte? Sotto il vostro episcopato noi dobbiamo essere rivelati. Non tardate ad aprire il sepolcro in cui i nostri resti sono stati deposti senza onori, in modo che, per tramite nostro, Dio, il suo Cristo e lo Spirito Santo aprano la porta della clemenza sul mondo, perché le numerose cadute di cui il mondo è testimone lo mettono ogni giorno in pericolo. D’altronde, più che di me stesso, io mi preoccupo di quei santi davvero degni di tutti gli onori”. Io gli risposi così: “Chi siete, voi, signore, e chi sono quelli che stanno con voi?”. Così egli mi rispose: “Io sono Gamaliele, son colui che ha educato Paolo e gli ha insegnato la Legge di Gerusalemme. Accanto a me, verso Oriente, è sepolto Stefano, che i principi e sacerdoti giudei hanno lapidato a Gerusalemme per la fede di Cristo, fuori della città, presso la porta Nord, sulla strada verso Cedar. In quel luogo, il corpo di Stefano rimase un giorno ed una notte, steso a terra, senza sepoltura, esposto alle bestie feroci, di cui, secondo l’ordine empio dei capi dei sacerdoti, sarebbe dovuto divenire preda. Ma Dio non volle che Stefano subisse quella sorte. Ed io, Gamaliele, pieno di pietà per la sorte del ministro di Cristo, ho inviato durante la notte gli uomini pii, che abitavano in Gerusalemme, di cui io conoscevo la fede in Cristo, e feci loro tutte le mie raccomandazioni. Diedi loro tutto ciò che serviva e li convinsi a recarsi in segreto sul luogo del supplizio per portare via il corpo e condurlo, con uno dei miei carri, alla mia casa di campagna chiamata Caphargamala, cioè ‘Casa di campagna di Gamaliele’, a venti miglia dalla città. Là io feci celebrare i funerali che durarono quaranta giorni e feci deporre il corpo nel sepolcro che mi ero fatto costruire da queste parti, nella capanna situata ad Oriente, e ho fatto dare a questa gente il denaro necessario per sostenere le spese dei funerali”. Ed io, l’umile prete Luciano, rivolsi a Gamaliele questa domanda: “Dove dobbiamo cercare?”. Gamaliele mi rispose: “Nel mezzo del sobborgo”, il che poteva esser detto di un campo molto vicino alla casa di campagna, chiamato Delagabria, cioè campo degli uomini di Dio”. Nel punto indicato nella località di Caphargamala, il corpo del santo venne riesumato e sepolto nella chiesa di Sion a Gerusalemme, mentre una piccola parte delle reliquie venne trattenuta da Prete Luciano.
Secondo la tradizione, una donna bizantina, trafugò le spoglie di Santo Stefano, scambiandole per quelle del marito, per portarle con sé a Costantinopoli. Un’altra leggenda racconta che fu Pietro “Polani”, nel 1110, a trafugare le reliquie di Santo Stefano, durante una missione a Costantinopoli , per portarle a Venezia. Non essendo in possesso di una documentazione che dimostri di come la reliquia sia giunta a Caorle. possiamo presumere che sia giunta attraverso vie diplomatiche considerando il fatto che le città lagunari di Venezia e Caorle erano molto legate politicamente e commercialmente.
Il museo del duomo dedicato a “Santo Stefano Protomartire”, conserva, in un prezioso reliquiario, la parte superiore del cranio appartenuto al santo. La dedica del duomo di Caorle a santo Stefano avvenne nel 1247 a cura del vescovo Rinaldo, ma, la perdita della documentazione, rese necessaria una nuova consacrazione. Il vescovo Pietro Martire Rusca riconsacrò la chiesa nel 1665, dopo aver contribuito ai necessari restauri. Una targhetta in marmo posta nei pressi dell’altare ricorda lo storico evento.

Per quale motivo la chiesa è dedicata a Santo Stefano?
La risposta si può trovare studiando gli eventi avvenuti all’anno 568, durante l’invasione dei longobardi. L’invasione dei barbari, costrinse il vescovo di Concordia a rifugiarsi presso la città di Caorle, allora facente parte dei territori bizantini. Nel 579 il patriarca Elia, su concessione del papa Pellagio II e con l’autorizzazione dell’imperatore di Bisanzio Eraclio, trasferì la sede vescovile a Caorle dando il via ai lavori per la costruzione di un nuovo castrum che comprendeva la nuova chiesa dedicata a Santo Stefano ed il palazzo vescovile, dove vennero trasferite per essere custodite le reliquie del santo provenienti da Concordia.
Il duomo di Caorle sorge sulle rovine di un’antica basilica paleocristiana, come testimoniano i numerosi reperti del giardino della canonica che richiamano lo stile bizantino. I due bassorilievi della facciata principale risalgono ai tempi della quarta crociata e rappresentano Sant’Agatonico martire di Bitinia e San Giorgio. Secondo alcuni studiosi, il bassorilievo di destra non raffigurerebbe San Giorgio, bensì San Guglielmo di Tolosa, conte di Tolosa, Duca di Narbona e marchese di Gotia; in un’iscrizione appare il termine “Geoelmeon” che fa riferimento alla città di Gallona. Guglielno di Tolosa fondò un monastero a Gallona, “Saint Guilhem le desert”, azione che permise alla chiesa di conferirgli la santità. Altri studiosi sono, invece, propensi a sostenere che l’immagine raffiguri i San Teodoro di Amasea, una raffigurazione che rispecchia il “San Teodoro”, che, posto sopra una delle due colonne, osserva piazza San Marco a Venezia. In ogni caso entrambi i bassorilievi esprimono il collegamento con l’impero bizantino d’oriente e rafforzano l’ipotesi che provengano da Costantinopoli. Sul fianco destro della cattedrale di Santo Stefano Protomartire, una porta conduce al museo del Duomo.




Qui sono esposti molti oggetti religiosi di gran valore, un autentico tesoro definito: “il tesoro del museo del duomo”. Nei reliquiari sono contenute molte reliquie tra cui il “braccio di santa Margherita d’Antiochia”, il “cranio di santo Stefano” ed il “preziosissimo sangue di Gesù Cristo”.


– Il reliquiario che contiene la parte superiore del cranio di Santo Stefano è un oggetto di età barocca della tipologia tipica del’600 a forma di cupola, punto su cui è stato posto il cranio del santo. Un artefatto di notevole pregio, raffinato nello sbalzo della base, raffigurante elementi vegetali di manifattura veneziana, al nodo spuntano delle teste, la cupola di vetro che contiene il teschio è racchiusa una cerniera e sorretta da un angelo plasmato in tutte le sue forme.
– Il reliquiario della mano di santa Margherita, secondo gli storici, apparteneva ad una chiesa, ora scomparsa, che sorgeva nei pressi del fiume Livenza e dedicata alla Santa. L’oggetto ha la forma particolare di una mano e sembra aver subito numerosi restauri o manutenzioni in epoche diverse. E’ difficile intuire se si tratti di un manufatto originale oppure sia stato modificato nel tempo aggiungendo nuovi pezzi alle parti più antiche.

Secondo un passio greco da Teotimo, Margherita o Marina nacque ad Antiochia di Pisidia nel 275. Figlia di un sacerdote pagano, dopo la morte della madre, fu affidata ad una balia cristiana che crebbe la bambina educandola ai propri principi.
Quando il padre scoprì la conversione alla nuova fede la cacciò di casa. Ritornò dalla balia che l’aveva cresciuta, fu adottata, e le venne affidata la cura di un gregge di pecore.
Mentre era al pascolo, fu notata dal prefetto Ollario che si invaghì di lei, ma le sue richieste vennero respinte dichiarando apertamente di aver consacrato la sua verginità al Signore.
Umiliato, il prefetto la denunciò come praticante cristiana. Venne condannata e rinchiusa in una cella. Secondo la leggenda nella stanza in cui era rinchiusa apparì il demonio dalle sembianze di un drago e la inghiottì. Margherita, utilizzando la croce che teneva in pugno per pregare, , squarciò il ventre della bestia e ne uscì vittoriosa. Per questo motivo la santa viene invocata in preghiera per ottenere un parto facile. Nei successivi interrogatori continuò a dichiararsi cristiana: si ebbe allora una scossa di terremoto, durante la quale una colomba scese dal cielo e le depositò sul capo una corona. Dopo aver resistito miracolosamente a vari tormenti, all’età di quindici anni venne decapitata.
– Nell’anno 1776 il vescovo Caorle “Civran” ricevette l’incarico, dal senato veneziano, di accogliere il doge “Alvise Moncenigo” al lido di Venezia per presiedere la cerimonia dello “sposalizio del mare”. Lo stesso anno il vescovo Civran venne trasferito a Chioggia e, in quell’occasione, donò il prezioso reliquiario del preziosissimo sangue che ora si trova esposto tra i tesori del museo. Il nome del vescovo ed il suo stemma appaiono incisi sul basamento dell’opera che contiene le reliquie cristologiche giunte da Costantinopoli durante le crociate. Un reliquiario in argento di pregevole fattura, di un’importanza unica nel suo genere, al suo interno è conservata una manciata del terreno del Golgota che assorbì alcune gocce di sangue che Gesù lasciate sul cammino durante la crocifissione. Il reliquiario è rappresentato da una bellissima opera in stile gotico, attribuita ad un orafo veneziano, con la base decorata a smalto traslucido con incastonati alcuni elementi in argento dorato che creano un raffinato colore di cromia; la cornice che racchiude il vaso in cristallo raffigura una serie di pinnacoli e tabernacoli. L’oggetto è databile tra la fine del ‘300 e l’inizio del ‘400, restaurato nel ‘700 come testimonia lo stemma inciso del vescovo Civran. Il reliquiario in origine fu un ostensorio tipico dell’epoca, a forma di vaso. La forma degli estensori fu poi sostituita con la forma raggiante a rispetto a quanto stabilito agli atti del Concilio di Trento.

Tra gli oggetti del tesoro merita di essere menzionato un reliquiario che rappresenta il dito di San Eustachio di origine bizantina, probabilmente importato con altri manufatti da Costantinopoli. Si tratta di un genere reliquiario molto raro, si presume abbia raccolto un dito del santo, e, la presenza di due anelli, fa ipotizzare che i pellegrini l’abbiano indossato appeso al collo. L’oggetto è stato identificato di “San Eustachio” grazie all’incisione in greco che riporta il suo nome. Il reliquiario riporta incisa anche un’ iconografica del santo barbuto, con i polsi rivolti verso l’alto che sembrano slogati tipici dell’arte bizantina.

Ma chi era San Eustachio?
Non è mai stata trovata una documentazione riguardante questo santo, forse si tratta di un personaggio immaginario, gli unici riferimenti si riscontrano nella lettura del capitolo 61 della “Leggenda Aurea” di Jacopo da Voragine. La leggenda descrive un uomo chiamato “Placido” riportandolo al momento in cui stava inseguendo un cervo durante una battuta di caccia. Il cervo si era fermato nei pressi di un burrone e si era voltato rivolgendo lo sguardo verso Placido. Tra le sue corna apparve una croce luminosa mostrante la figura che si rivolse a Placido dicendo: “ Placido, perché mi perseguiti? Io sono Gesù che tu onori senza sapere”. Quando Placido itornò a casa la moglie gli confidò di aver fatto un sogno: aveva ascoltato una persona sconosciuta che le aveva predetto la sua visita assieme al marito. Il giorno seguente entrambi i coniugi assieme ai due figli si recarono dal vescovo e ricevettero il battesimo. Placido ricevette il nome di Eustachio (dal greco eustachios – “che dà buone spighe”), la moglie Teopista (dai termini greci theos pistos – credente in Dio) ed i figlio Teopisto e Agapito (dal greco agapios – colui che vive di carità).
La leggenda aurea di Jacopo da Voragine presenta la figura di sant’Eustachio simile a quella biblica di Giobbe. Dopo aver lasciato l’esercito romano Eustachio fu perseguitato dalla sorte perdendo la moglie, i figli e tutti i suoi averi. Grazie alla sua fede ed alla provvidenza, qualche anno dopo si ricongiunse a tutta la sua famiglia e fu richiamato nell’esercito con il grado di generale da parte del generale Traiano. Quando fu inviato a Roma per ricevere gli onori per le sue prestazioni in battaglia, le autorità scoprirono che praticava la religione cristiana. L’imperatore Adriano fece arrestare lui e tutta la sua famiglia. Durante lo spettacolo nell’arena del Circo Massimo, luogo fissato per il loro martirio, miracolosamente si salvarono dall’attacco delle fiere liberate, ma questo non bastò a salvar loro la vita; morirono bruciati al foro Falaride, strumento di tortura di origine greca, facenti parte di quelle 120 persone martirizzate il 20 settembre.
“Inter natos mulierum non surrexit maior Joanne Baptista“: è la scritta che appare nel cartiglio dorato del reliquiario di San Giovanni Battista che tradotto significa “fra i nati di donna non è sorto uno più grande di Giovanni Battista. L’opera d’arte raffigura un agnello che ricorda un passo evangelico, l’agnello sacrificale che toglie i peccati del mondo. Il vassoio con la testa del santo, sostenuta da due angeli, raffigura la modalità del martirio del Santo. Il reliquiario viene esposto ogni anno alla santa messa il 24 giugno, solennità che ricorda la natività di San Giovanni Battista.

Quanto descritto rappresenta solo una parte degli oggetti sacri e delle reliquie conservati al museo del duomo, oggetti associati a storie, miracoli e misteri ognuno dei quali racconta scene di vita vissuta da parte degli antichi cristiani la cui fede non terminò nemmeno innanzi alle sofferenze e alla morte.
Nel mondo attuale è difficile comprendere questi eventi di vite passate essendo abituati alla normalità del nostro tempo. Entrare a contatto con tali oggetti, analizzarli e contemplarli è un modo per poter ricordare e comprendere il significato della cristianità, per poter vivere aggrappandoci ai valori che essi ci insegnano, perché ricordando i sacrifici dei nostri avi possiamo renderne testimonianza o essere d’esempio a tutte le comunità.


















